Il clima cambia perché il re non ama apparire nudo. La politica, tutta la politica, vive di credibilità e di consenso. Perciò la politica non ama che la magistratura disveli troppo in fatto di corruzione o collusioni con la mafia, perché ne diminuisce la credibilità complessiva. È un atteggiamento trasversale, sia pure con enormi, stellari differenze tra gli schieramenti. La politica rivendica il suo primato, ed è sacrosanto che lo faccia, ma dovrebbe rivendicarlo facendo le leggi giuste, anche sulla base di alcune esperienze giudiziarie. Cosa che non è quasi mai avvenuta: anzi, alcuni il primato della politica lo concepiscono più che altro comeTratto da Un magistrato fuori legge
sottrazione di sé ai controlli. Infine, a un certo punto si comincia a dire (più che altro come petizione di principio, senza troppe verifiche) che l’antimafia non paga in termini elettorali, come non paga la lotta alla corruzione. Quindi non è il caso di parlare troppo di certe questioni. Anche questa, in una certa misura, è una tesi trasversale.
Si verifica, in sintesi, l’eclissi della questione morale. Negli Stati Uniti e nel
Regno Unito un’irregolarità sulla colf o sulla badante basta a stroncare carriere
politiche prestigiose; da noi non bastano le sentenze di Cassazione.
Nel saggio Che cos’è la mafia (ripubblicato da Editori Laterza nel 2002), Gaetano Mosca
scrive che il funzionario pubblico onesto «presto comprende (che) se vuole
combattere i soliti onorevoli usi a trescare colle cosche mafiose… dovrà intanto
essere esposto alle trame e alle calunnie che si ordiranno contro di lui a Roma». E
che «se non riesce, sarà addossata a lui la responsabilità dell’insuccesso».
Il testo è del 1900. Un secolo e 10 anni fa.
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